mercoledì 22 agosto 2012

[Diario] Senza titolo


Della serata di inaugurazione della mostra di Dino Battaglia ho già parlato in un'altra triste occasione.
Fu l'ultima uscita pubblica/ufficiale, mi è stato detto, di Sergio Bonelli.
Ma fu anche la serata in cui, per la prima volta, ebbi occasione di stringere la mano e scambiare due parole con un altro maestro internazionale del fumetto.
Sergio Toppi aveva l'aspetto di un nonno simpatico, che scherzava con l'amico e collega Sergio riguardo alla sua sordità e quando gli venne chiesto di dire due parole su Battaglia, be', quello fece.
Poche, sincere parole, dette con voce sottile. Parole che parlavano di un amico che se n'era andato troppo presto.
Toppi lo conoscevo fin da bambino, quando vedevo le sue storie piene di disegni stupefacenti, intricati, bellissimi anche per chi, come me, ancora non conosceva l'arte e il design che tanto hanno influenzato --e tanto devono-- all'arte del maestro. Ho però imparato ad apprezzarlo solo più tardi, "da grande", quando la mia visione del fumetto si è ampliata a forme più adulte e sperimentali.
Il suo uso della vignetta scontornata, le sue violazioni della griglia, che rendevano ogni tavola un piccolo capolavoro, sono ormai note a tutti. Ma nessuno prima di lui le aveva rese così uniche, arricchite di un senso della composizione raro (e detto così è un vero eufemismo).
Nei miei viaggi all'estero, e in particolare negli Stati Uniti, ho avuto modo di scoprire come molti autori americani ammirassero il suo lavoro, che pure restava pressoché sconosciuto ai loro lettori. Toppi era un artists' artist, un artista ammirato e noto agli altri artisti.
Sono felice di aver avuto quella breve occasione per fargli i complimenti e ringraziarlo personalmente per il suo lavoro. E poi aveva un'aria così... umana, semplice.
Mi sa che non ne facciano più, così.

Ma questo torrido agosto s'è portato via un altro maestro, quel Joe Kubert che invece non ho mai avuto occasione di incontrare. Non serve che sia io a dire quanto Kubert ha fatto per il fumetto americano di genere, senza dimenticare il suo Texone o graphic novel come Fax From Sarajevo e Yossel.
Quando incontrai suo figlio Andy, alla New York Comicon, gli dissi quanta paura mi facevano le sue storie del Soldato Fantasma (titolo italiano di Unknown Soldier che per qualche ragione ho sempre trovato perfetto) e ci siamo fatti due risate insieme.
Kubert se n'è andato dieci giorni fa, lasciandosi dietro un'eredità strabiliante, che comprende storie raccontate con maestria, due figli (Andy e Adam) che portano avanti la "tradizione di famiglia" con successo e la più longeva scuola di fumetto americana, quella The Kubert School che ha sfornato negli anni tanti talenti finiti a lavorare per le due major americane.
Con la sua solita, tagliente efficacia, Brian Azzarello, che lavorò con lui su Sgt. Rock - Between Hell and a Hard Place, riassunse perfettamente il rispetto che Kubert sapeva ispirare attraverso il suo lavoro quando, rispondendo a una domanda sulla storia realizzata insieme al maestro, disse solo, "Vi beccate 140 pagine di Joe Kubert. Il resto che importa?"

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